agosto 2010


Alla ripresa dei lavori parlamentari Silvio Berlusconi cercherà di rianimare il suo governo e di mettere con le spalle al muro i finiani con i cinque punti programmatici partoriti dal vertice del Pdl di metà agosto. Nelle intenzioni del Premier questi cinque punti (giustizia, mezzogiorno, fisco, federalismo e sicurezza) dovrebbero rappresentare la riscossa di un governo da troppo tempo bloccato da lotte di potere e scandali ed anche l’estremo tentativo di ricompattare la maggioranza per evitare le urne. Eppure questi cinque punti sui quali il Cavaliere confida tanto hanno già il sapore della sconfitta perché sono l’ombra della rivoluzione liberale, di quel grande progetto riformatore più volte propagandato ad ogni consultazione politica. Da anni in prossimità delle elezioni politiche appare un Cavaliere rampante con programmi di rinnovamento epocale che però una volta al governo puntualmente si tramuta in un Cavaliere inesistente che preda di mille problemi politici e giudiziari dimentica sogni e progetti. Ma questi cinque punti, frutto di limature ed equilibrismi, più che un programma innovatore sembrano  “macerie programmatiche” che mal si addicono ad un Cavaliere rampante, piuttosto è il caso di ricorrere nuovamente alla celebre trilogia araldica di Italo Calvino per parlare questa volta di un Cavaliere dimezzato.  Il Cavaliere è dimezzato non solo perché ha perso gran parte del suo lustro ma perché è proprio il suo programma ad essere dimezzato. I più perfidi ricorderanno i 45 punti del programma della “discesa in campo” del 1994 e poi i monumentali 100 punti programmatici del Polo delle Libertà nel 1996 che segnano l’apogeo del programma berlusconiano a cui segue la progressiva diminuzione dei punti: 10 con la Casa delle Libertà nel 2006 e infine 7 con il Popolo delle Libertà nel 2008. Oggi i punti sono solo 5 e il Cavaliere  come il suo programma è ben più che dimezzato. Bisogna capire a questo punto se questi cinque punti sono solo una parte della strategia di Silvio “il temporeggiatore”,  che vuole prendere tempo per mettere al muro Fini ed evitare che il duo Bossi-Tremonti passi all’incasso elettorale, oppure sono il reale tentativo di dare una svolta concreta all’azione governativa e rimettere in moto il Paese.  In quest’ultimo caso un’opposizione responsabile e repubblicana non dovrebbe avere problemi a esaminare senza pregiudizi ed eventualmente votare dei provvedimenti chiari e necessari, tuttavia al momento questa valutazione resta in sospeso perché i cinque punti sono solo dei contenitori vuoti, delle generiche affermazioni programmatiche che Berlusconi deve necessariamente chiarire. Luogo naturale del chiarimento è il Parlamento davanti al quale il Premier si deve presentare con la sua squadra, e in questo senso è auspicabile che al più presto un ministero chiave come quello dello Sviluppo economico abbia finalmente un titolare, per chiarire a maggioranza e opposizione in cosa consistono i cinque punti programmatici. In questo agosto così politicamente movimentato il Foglio di Giuliano Ferrara ha lanciato la simpatica iniziativa “mozione di settembre” ovvero “gioco di società per evitare un agosto di lavoro al Cav. (e rilanciare il gov.)” con la quale si chiede a lettori più o meno celebri di dare qualche dritta a Berlusconi per il prossimo appuntamento politico. Chissà se il Cavaliere ha letto qualche suggerimento? Nel dubbio si potrebbe provare a dare qualche consiglio e considerato che le grandi riforme sembrano ormai fuori portata si potrebbe tentare di salvare il salvabile, magari trovando anche  il consenso dell’opposizione, portando in Parlamento qualche piccolo ma necessario provvedimento. Ad esempio si potrebbe tornare a parlare del più volte promesso quoziente familiare e si potrebbe provare a rimettere in moto l’economia italiana rendendo facile la vita alle imprese e favorendo la creazione di attività con lo snellimento e la semplificazione delle pratiche burocratiche e l’eliminazione di costi e vincoli amministrativi ingiustificati. E se poi si parlasse di tornare ad investire su istruzione e ricerca e di ripristinare gli stanziamenti per le Forze dell’Ordine?  Ma qui ci stiamo già allontanando dai famigerati cinque punti e non è il caso di andare oltre perché se è vero che Martino per un punto perse la cappa figuriamoci cosa succederà al Cavaliere con cinque.

Adriano Frinchi

A volte mi chiedo se la mia terra, la Sicilia, faccia davvero parte dell’Italia. I dubbi sono sempre più verosimili, perché vedo che anche Berlusconi nel suo programma elettorale in cinque punti l’ha dimenticata, oppure, ipotesi poco più plausibile della precedente, neanche sappia cosa sia.

Ma il discorso non riguarda solo Berlusconi, ma tutti i governatori del passato. A partire da quando la Sicilia faceva parte del Regno delle Due Sicilie, l’economia dell’isola è stata una forma di sopravvivenza, escluso il settore primario. La Sicilia è stata leader indiscussa nel settore, ed è proprio grazie a questo, ed alla decisione di proteggere i prodotti della terra dalla concorrenza straniera, sono arrivati capitali sufficienti per cominciare a investire anche nel settore secondario, quello delle industrie. Queste erano sì poche, ma comunque abbastanza produttive e di medie dimensioni.

Negli ultimi anni pre-unitari il governo borbonico tese soprattutto a concentrare l’economia del Regno nelle aree intorno a Roma e Napoli. Proprio a Napoli sorsero le prime reti ferroviarie, mentre a Bari vi fu l’unica banca, il Banco delle Due Sicilie. Dopo la spedizione dei Mille, invece, la Sicilia si ritrovò la regione più arretrata d’Italia: la sua economia si basava ancora sull’agricoltura tradizionale, e non tardarono ad arrivare i primi problemi, primo tra tutti il brigantaggio.

Nel 1861 l’economista classico-liberal americano G.Hildebrand enunciò: “In mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall’inizio; incapace com’era di difendersi, poteva solo tentare di diminuire in qualche modo l’enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato”. Tutto vero, perché mentre al Nord l’economia era di tipo capitalistico, al Sud era ancora di tipo precapitalistico, che si rifaceva al tipo feudale. Si venne così a creare nel Sud un periodo di sudditanza finanziaria che ne impediva lo sviluppo.

La situazione divenne via via più drastica: basti pensare che nel 1865 l’87,1% del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord-Ovest, il 2,2% nel Nord-Est, il 6,5% nel Centro ed il restante 4,2% nel Sud, ma la Sicilia non toccava nemmeno l’1%.. Adesso? Beh, adesso sicuramente la Sicilia è diversa da quella di allora, ma rimane comunque la regione più retrograda d’Italia. La sola industria fiorente nel territorio è quella della mafia, sì perché Sergio Marchionne ha deciso di toglierci pure la Fiat. La domanda mi sorge spontanea: perché tra cinque fabbriche, proprio quella di Termini Imerese? Perché non chiudere quella di Frosinone, o Mirafiori, o ancora Cassino e così via? Benissimo, a Tichy la situazione economica è sotto i livelli medi e gli stipendi dei lavoratori sono molto bassi, ma secondo lei, caro Marchionne, in Sicilia le persone stanno meglio? Sta mandando a casa migliaia di ragazzi e padri di famiglia. Provi a cambiare idea, chiuda uno stabilimento al Nord e lasci aperto quello di Termini Imerese. Tanto al Nord c’è quel fantapolitico di nome Umberto Bossi, che con tutto il denaro che ha ricavato dalle truffe in banche e quote latte, potrebbe creare un sistema industriale vastissimo.

Ma lasciamo stare il caso specifico della Fiat e torniamo al programma elettorale del Governo. Al punto 3 troviamo: Piano per il Sud, con completamento della Salerno-Reggio Calabria e proseguimento dei lavori sullo Stretto. Ma a me che me ne può importare del ponte sullo Stretto? Voglio dire, sì, potrebbe essere necessario, ma credo sia più necessario rimettere in sesto il sistema stradale, poco sviluppato.

E l’economia? Questa domanda la inoltro al nostro Presidente Raffaele Lombardo, che, su un fondo di 10 miliardi della CEE ne spende una minima parte e il resto lo rimanda indietro, quando i problemi da risolvere sono molti e i soldi sono pochi. E così è stato buttato al vento un fondo molto importante.

Onorevole Casini, io la stimo molto perché è al Sud che ha concentrato la sua attenzione; lei inoltre è stato l’unico a fermare chi ci accusava di essere un popolo di ladri, quando i ladri sono loro, e noi persone oneste che faticano per mandare avanti le proprie famiglie. Alle prossime elezioni pensi anche a noi, le saremo molto grati. Buona fortuna.

Stamane scrivo con lo sconcerto che porto da due giorni a seguito della visita del colonello Gheddafi in Roma, in onore dell’ anniversario tra gli accordi di pace tra Italia e Libia. Già in passato avevo fermato la mia attenzine su questa “sospetta” amicizia, e sulle numerose visite (almeno 3-4 a l’anno) di Gheddafi nel nostro paese o viceversa del nostro caro presidente del consiglio S.Berlusconi a Tripoli. Mi ha davvero colpito lo spirito di adattamento del nostro premier… quando è lui a recarsi in terra Libica, deve estraniarsi da qualsiasi simbolo, e/o frase di genere cristiano-cattolica, e costretto a seguire le regole del Corano, “anche se da ospite”. Il nostro si sà, è un paese che accogli tutti, con qualsiasi cultura esso porti nel cuore, ma affermare in p.zza del Popolo a Roma:- L’Europa deve convertirsi all’ Islam, scegliendo per dire questa assurda cosa, tra l’ altro, propio Roma, sede della cristianità per gran parte degli Europei, mi sembra pericoloso. Ma non è la prima volta che accadono cose così strambe… La mia attenzione poteva sorvolare quando sentivo che:- Gheddafi: arrivo a Ciampino solo se all’ uscita dall’ aereo mi attendono splendide amazzoni in tuta mimetica, una azzurra e l’altra verde, e tacchi vertiginosi :- Oppure:- Gheddafi in visita in Italia ha voluto fermamente una tenda stile sahariana, montata in pieno centro a Roma -: , o ancora quando :- Gheddafi percorre 5 Km di autostrada A24 cullato da portantini e ombrelli bianchi -:. Insomma stranezze da parte di un uomo che sempre più si sente padrone di comportarsi seconda la sua di cultura, e infischiandosi altamente degli stili Italici. Ha poi esageratamente straripato nel momento in cui affermava giusto ieri, che è giunta ora di convertirsi al “sacro corano”. La reazione di tutte le fasce politiche sia d’opposizione che di maggioranza sono state immediate: dal IDV si parla di buffonate permesse da Silvio, nel PD la frase del colonello Libico è stata presa come grave offesa, nella cristiana UDC, Rocco Buttiglione ironicamente contrattacca indossando una maglietta con lo scudo crociato, pronto alla partennza per l’ evangelizzazione dell’ Africa Mediterranea, e nel PDL stesso si parla di “esagerazione” nel trattare alcuni temi da parte del colonello libico.

Insomma si sà bene che le amicizie di Berlusconi, finiscono poi con l’essere redicolizzate, e spesso ad essere redicolizzata è anche la cultura italiana… Come accadde con la regina Elisabetta, quando chiese al premier :- ma perchè in Italia urlate sempre cosi?!… O ancora quando dopo un’ offesa alla cucina Filandese, un politico locale rispose:- meglio che ingerire pasta pizza e mafia ogni giorno! Resta comunque in me il forte dubbio che questi larghi permessi di “spadroneggiamento” concessi a Gheddafi, siano dovuti alla forte risorsa energetica che Silvietto vede nella desertica Libia, e nel timore che il dittatore inneschi una guerra mediatica come quella che è in corso con la Svizzera. E credetemi, per fare infuriare la neutrale federazione elvetica, qualcosa di troppo è stata fatta e/o detta!!!

 

Riceviamo e Pubblichiamo di Giovanni Castellana

Che l’unità dei cattolici in politica, fosse un’utopia, o forse anche, un errore, ne era convinto don Luigi Sturzo, il quale fondando il Partito Popolare, con un manipolo di uomini, chiarì, in maniera anche evidente nello statuto dello stesso nascente partito, come in realtà da un lato è solo la Chiesa ad essere veramente cattolica, cioè universale, per tutti, ecumenica, diffusa in tutte le terre abitate; mentre dall’altra parte il partito popolare sarebbe stato “solamente” una parte di, una frazione di, aconfessionale, e quindi ontologicamente non universale, non cattolico insomma.
Partendo da questa premessa, credo che noi, guardando, e cercando di comprendere, il nostro contesto, locale, diocesano, provinciale, ma anche nazionale, siamo chiamati a riflettere, da cattolici “interessati” alla politica, sul fiorire di liste civiche, neo-partiti, partiti affermati, movimenti civici o pseudo – partitici, che in qualche maniera, più o meno vaga, più o meno decisa, più o meno evidente, più o meno positiva, potrebbero ritornare a proporre quell’unità dei cattolici in politica, o la strumentalizzazione di essi, che nemmeno il “padre” del popolarismo italiano, appunto Sturzo, si sarebbe mai sognato di pensare e dunque proporre. Sulla scia che definirei “sturziana”, a mio modestissimo parere, credo che possa ben collocarsi, quel movimento, quel nuovo soggetto politico, che in queste ultime settimane, e mesi, ha fatto molto discutere, (anche dalle nostre parti con un convegno organizzato dall’Associazione Alcide De Gasperi e dal Centro Studi Cammarata dal titolo “Puntare al centro per centrare il punto. Di cosa si occupa una politica che sceglie il centro” nello scorso luglio), che risulta essere il Partito della Nazione, “ufficializzato” proprio qualche settimana fa a Todi con un seminario organizzato dalla fondazione Liberal, presieduta dall’on.le Ferdinando Adornato.

Questa nuova “realtà” politica, a detta proprio dei suoi costituenti, non vuole essere intesa come un partito di nicchia, di esclusiva affiliazione post – democristiana, ma come il progetto di un grande partito cristiano e liberale. Un partito certo di ispirazione cristiana, ma non il partito della Chiesa, dell’unità dei cattolici in politica. Un soggetto che vuole rivolgersi con forza a quei movimenti cattolici, e non, del volontariato, del no – profit, della formazione, che possono, e devono, dare un contributo, oggi forse sempre più determinante, in questo momento della storia del nostro paese, per sostenere, e perché no anche per diventare, classe dirigente impegnata in politica, in grado di cambiare radicalmente l’Italia. Sulla scia dei continui appelli circa l’impegno politico, di Benedetto XVI, del Cardinale Bagnasco, di Mons. Crociata, del nostro pastore Mons. Mario Russotto, credo, che come comunità credente, dobbiamo, e possiamo formarci e spenderci nell’ambito socio – politico, convinti, o meglio, consapevoli, che la cattolicità, e dunque l’unità, è garantita e vissuta, solamente dalla e nella Chiesa Cattolica.

 Riceviamo e Pubblichiamo di Rocco Gumina

Come abbiamo avuto modo di dire in passato, la Sicilia è al centro delle attenzioni delle compagnie petrolifere che stanno avviando varie prospezioni sui fondali marini e, dai primi risultati, pare che effettivamente ci siano grandi quantità di petrolio di buona qualità.
Il problema è che, visto dove fanno le indagini, quasi sicuramente le trivelle sorgeranno vicino o davanti a zone di grande fascino ambientale e di grande flusso turistico: Pantelleria, Favignana, Sciacca.

La popolazione si sta già mobilitando facendo sorgere dei comitati “no triv”, perchè giustamente vorrebbe prima essere consultata, in quantoi rischi sono altissimi e i ritorni, in termini di sviluppo, quanto meno ridotti.

Per quanto riguarda i rischi ambientali, basti ricordare la triste esperienza del polo petrolchimico e della rada di Augusta, una zona di litorale dove sono state scaricate negli anni passati, tonnellate e tonnellate di residui altamente cancerogeni (mercurio, piombo, solfati, e così via).
Per quanto riguarda i ritorni economici promessi, sotto forma di accise, dobbiamo rilevare alcune cose: intanto che le accise in Italia sono incredibilmente basse, come afferma una compagnia petrolifera, la Cygam energy, che dice testualmente a pagina 7 di un suo rapporto: Italy’s royalty structure is one of the best in the world. For offshore permits, the state royalty on oil production is only 4%, with a provision that no royalties are paid on the first 300,000 barrels of oil production per year, per field. This represents a royalty free production on the first 822 barrels of oil per day, per field. Offshore gas production is subject to a 7% royalty, but the first 1,750 MMcf per year, per field (or approximately 4.8 MMcf per day), are also royalty free. For onshore permits, the state royalty on production of both oil and gas is a maximum of 7%, with a provision that no royalties are paid on yearly production less than 125,000 barrels of oil and 700 MMcf of gas, per field (or approximately 340 bopd and 1.9MMcf/d). The corporate tax is a maximum of 33% and there are no restrictions on repatriation of profits.

Ovvero: la struttura delle royalties in Italia e’ una delle migliori al mondo. Per i permessi in mare, le roylatie sono del 4%, con la clausola che non si paga nulla per i primi 300.000 barili di petrolio all’anno, per campo. Questo significa che i primi 822 barili al giorno [51.000 litri], per campo sono gratuiti. Per il gas invece, in mare, c’e’ una royalty del 7%, ma i primi 1750 MMcf [1750 milioni di cubic feet = circa 50 milioni metri cubi] per anno, per campo sono gratuiti. Su terra, le royalty statali sono al 7% e non sono dovute se la produzione annulae e’ meno 125.000 barili di petrolio [circa 19 milioni di litri] e meno di 700 MMcf di gas [19 milioni di metri cubi] per campo. Le tasse sulle societa’ sono al massimo del 33%.

Quindi come si vede, il ritorno economico promesso alle popolazioni è molto basso.
Ma il punto non è solo questo. Il punto focale è capire che sviluppo si vuole: questo governo non può dire di puntare al turismo, e poi invece rovinare l’ambiente e le zone turistiche per il petrolio.
E propio per questo leggiamo con favore quanto dichiarato dall’on.le Saverio Romano che ha affermato:  ‘La politica al servizio della tutela dell’ambiente e a difesa della sicurezza e delle nostre ricchezze paesaggistiche. E’ questo il senso della manifestazione ‘No trivella day’ di oggi a Pantelleria, contro l’installazione di piattaforme petrolifere nel Mediterraneo. Il partito e’ direttamente impegnato in questa lotta e al nostro impegno nelle sedi politiche affiancheremo una campagna di sensibilizzazione e di informazione, coinvolgendo iscritti e simpatizzanti. La difesa del nostro mare e l’idea di sviluppo eco-sostenibile del nostro territorio – conclude – mal si conciliano con i pozzi petroliferi a largo delle nostre coste’ 

Nel giorno in cui si ricorda il 56° anniversario della morte di Alcide De Gasperi, fondatore della DC, in spiaggia ad Otranto intorno alle ore 11:00 il presidente UDC Rocco Buttiglione ha consegnato a Pier Ferdinando Casini la prima tessera del Partito della Nazione.

Il processo di evoluzione che ha portato alla nascita del nuovo partito ha inizio nel lontano 1942, quando Alcide De Gasperi fondò un partito, la DC, che si rivelò il partito più forte della storia della nostra nazione. Esponenti democristiani hanno fatto parte di tutti i governi italiani dal 1944 al 1994, esprimendo quasi sempre il presidente del consiglio dei ministri. La DC è stata sempre il primo partito alle consultazioni politiche nazionali cui ha partecipato, con una sola eccezione, nel 1984. La DC rimase attiva fino al 1994, quando, dopo una crisi, vi fu una scissione in altri tre partiti: il PPI, il CCD e il CS. In seguito Rocco Buttiglione, allora presidente del PPI, si collocò a centrodestra, portando con sè esponenti di altri partiti. Fondò così un nuovo partito, il CDU. In seguito nacquero altri partiti, sempre di ispirazione moderata e democristiana, quali La Magherita e i Cristiano Sociali. Oggi i più importanti partiti che condividono le ideologie della vecchia DC sono: l’UDC, i giovani UDEUR, la Democrazia Cristiana per le autonomie. giudata da Giovanni Rotondi. Di questi solo l’UDC mantiene come simbolo lo scudocrociato della DC. L’UDC rimase fino al 2008 un partito di centrodestra, appoggiando il governo Berlusconi, ma il leader Casini decise di abbandonarlo per continuare la nostra strada da soli, cercando di creare un nuovo grande centro.

Da questa idea nasce il Partito della Nazione, in cui confluiranno tra non molto altri partiti minori, il più importante dei quali è l’API (Alleanza per l’Italia). Con la consegna della prima tessera a Pier Ferdinando Casini comincia una nuova era. Una grossa area di centro, moderata, si sta per ritagliare uno spazio ancora più ampio nelle istituzioni italiane, come il Parlamento e il Senato della Repubblica. Il Partito della Nazione può essere un’alternativa più che valida al bipolarismo, che nell’ultimo decennio si è esteso nella politica italiana. L’UDC seppellisce il bipolarismo, un fallimento, prova ne è la crisi dei due grandi contenitori, PDL e PD, che sono riusciti solamente a consegnare la golden share a Bossi e Di Pietro.

Il Partito della Nazione nasce per riconciliare l’Italia, perchè questo è un paese che si sta democraticamente rompendo. Il Nord contro il Sud, la politica contro la società civile, i magistrati contro la politica, la destra contro la sinistra. Così non si può andare avanti. Il nostro desiderio è quello di ricostruire un tessuto di unità nazionale. Non ci interessa l’adunata di generali senza esercito o il gossip sui nomi illustri. Servono tanti nomi ignoti; la somma di tanti nomi ignoti che possa determinare un vero fiume di cambiamento del nostro Paese.

Dove si concentrerà la maggiore attenzione del PDN? Naturalmente al Sud. Perchè dopo la spaccatura del PDL, la Lega di Umberto Bossi ha annunciato di voler creare liste in tutta Italia. Per fermarne l’avanzata, sia Fini che Casini cercheranno voti facili al Mezzogiorno. Magari lo faranno insieme nel nuovo soggetto politico del Partito della Nazione.

Già si muovono i critici:

  • Massimo Cocciari, sul sito del quotidiano L’Espresso, scrive un articolo di ben due pagine, dal titolo “Illusione grande centro”. Nell’articolo Cacciari analizza gli aspetti positivi (neanche uno) e negativi della possibile alleanza tra Fini, Casini e Rutelli, per formare un nuovo grande centro. Il problema sarebbe di leadership. Ma questo non è un problema, perchè la leadership, se il progetto andrà in porto, andrà a Pier Ferdinando Casini. Perchè? Come già detto, l’obiettivo del Partito della Nazione è quello di ricucire l’Italia. E il leader UDC è stato il solo negli ultimi anni ad aver rappresentato meglio di chiunque altro (forse solo Bossi ha fatto di più) l’unità e la necessità di un governo di responsabilità nazionale; mentre di Fini si può dire l’esatto contrario, perchè l’unica cosa che ha rappresentato è stata la divisione. Fini potrebbe dunque diventare presidente del partito, Rutelli il segretario e la leadership andrebbe a Casini.
  • La seconda polemica riguarda il logo del futuro partito. Sul web è patito da diversi mesi un concorso per il nome ed il simbolo del nuovo partito politico. E nello scegliere il futuro simbolo, vi è il rischio che si possa eliminare lo scudo crociato, da sempre simbolo dei partiti di ispirazione democristiana. Lo scudo crociato da solo vale più dell’1% dei voti.- Non è quindi solo una questione di sentimenti(Rocco Buttiglione ha detto: “Non ci dobbiamo vergognare del nostro passato”, mentre Lorenzo Cesa ha aggiunto: “Se dipendesse da me, vorrei che restasse”), ma anche di voti. Per evitare che in caso di rinuncia venga dottato da altri, è stato comunque deciso di trasferirlo ad una fondazione. Il Partito della Nazione ha bisogno di gambe e di cuore per far conoscere agli italiani il nuovo progetto politico. Venite a darci una mano perchè la politica va restituita ai cittadini.

Tanto tempo fa, precisamente nel lontano ’84, un uomo di nome Umberto Bossi, che era dotato di una fervida fantasia, decise di fondare un partito, che chiamò Lega Nord. Il suo obiettivo era quello di ottenere l’indipendenza di una terra chiamata Padania, terra questa, che, secondo le carte geografiche, corrispondeva all'”isola che non c’è” della favola di Peter Pan scritta da James Matthew Barrie. Significativi per la raccolta di voti furono i raduni a Pontida. In origine doveva essercene solo uno nel 1990, ma questi si sono ripetuti praticamente ogni anno, escluso il 2004, anno durante il quale Umberto Bossi, gravemente malato, fu costretto ad andare da uno psicologo per parecchi mesi, perchè cominciava ad avere seri problemi mentali e la sua fervida fantasia stava drasticamente aumentando. Particolare fu il raduno del 3 marzo del ’90, in cui un altro uomo molto fantasioso, Bettino Craxi, annunciò l’obiettivo che si prefiggeva il partito: modifica della Costituzione per dar vita ad uno Stato presidenzialista e federalista. Ma, fortunatamente, c’era chi lo contrastò: Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, si oppose con decisione, e il fantaprogetto della Lega Nord andò in fumo. Adesso tramite il federalismo e la devoluzione di alcune funzioni esercitate dallo Stato alle regioni, ripropone il fantaprogetto di uno stato federale. Da qualche tempo porta avanti una campagna dal titolo “Roma ladrona”, sì, proprio così, Roma ladrona, ma non perchè la città di Roma sia ladrona, o i romani stessi, solo perchè odiano il governo. Ma quello che più colpisce in questa campagna è il fatto che definiscano “ladroni” i romani, quando i signori padani sono noti trafficanti in banche e quote latte..

A questa storia non c’è una conclusione, perchè il fantaprogetto politico della Lega Nord, continua ancora oggi..

E “vivono” tutti ladroni e contenti..

Il fantapolitico

La polemica sull’editoriale di Famiglia Cristiana è una di quelle polemiche inutili che distraggono dalle questioni importanti. E’ una polemica inutile perché il settimanale dei paolini è una rivista cattolica, e non dunque la rivista rappresentativa di tutti i cattolici italiani, che esercita legittimamente come qualunque altro organo di stampa  il diritto di critica nei confronti del governo di questo Paese. Risultano così sproporzionate le reazioni dei pretoriani berlusconiani  che sembrano vivere in un mondo dove esiste il crimine di lesa maestà per quanti dissentono dal Premier  e dove i giornali cattolici si occupano solo del fatto se è meglio accendere le candele a san Francesco o a san Giuseppe. Fortunatamente viviamo in un paese libero e democratico dove criticare il Presidente del Consiglio è legittimo e a volte doveroso anche per un giornale cattolico che, ricordiamocelo, ha il compito di cercare la verità e di guardare alla realtà sub luce Evangelii. Fatta questa premessa necessaria per sgombrare il campo dalle sterili polemiche è giusto occuparsi dell’editoriale di Beppe Del Colle che pur facendo delle importanti sottolineature sembra perdere di vista lo sfondo più vasto della vicenda dei cattolici italiani in politica. Del Colle si muove sulla scia di un bell’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa, dove si invitano i cattolici italiani a fare autocritica sulla recente esperienza politica, e attribuisce alla discesa in campo del Cavaliere il “demerito” di aver iniziato la diaspora del voto cattolico. Il “fenomeno Berlusconi” è sicuramente un elemento chiave per comprendere la vicenda recente dei cattolici in politica ma non esaustivo perché la crisi della presenza politica dei cattolici in Italia viene da lontano: non è stato Berlusconi a spaccare il voto cattolico ma la storia. Il cambiamento e le fibrillazioni della Chiesa Cattolica sempre meno monolite e più sinfonia, il crollo delle ideologie, la crisi irrisolta della Democrazia Cristiana hanno progressivamente “liberato” il voto cattolico in Italia (è sufficiente guardare il progressivo assottigliarsi dell’elettorato democristiano) che orfano della Balena Bianca si è disperso tra le nuove formazioni politiche con una innegabile, e incoraggiata dalle gerarchie ecclesiastiche, preferenza per le forze del cento destra guidato da Silvio Berlusconi. Solo a questo punto si può accettare il rilievo di Del Colle sul problematico rapporto con il berlusconismo che da un lato, supportato da schiere di atei devoti, solletica e ammalia i cattolici con la difesa ad oltranza della vita ma dall’altro opera una progressiva estromissione dei valori dalla vita personale e comunitaria. C’è dunque un rapporto problematico dei cattolici con il berlusconismo, ma c’è soprattutto un problema della presenza dei cattolici nella vita politica e nella società civile che le vicende di questi anni, incluso il berlusconismo, non fanno altro che confermare. Questa crisi della presenza politica dei cattolici rientra nel più grande travaglio della Chiesa Cattolica che nel nostro caso non riesce a far passare capillarmente al suo interno la convinzione che l’impegno per la cultura e per l’educazione e la formazione della persona umana costituisce la prima sollecitudine dell’azione sociale dei cristiani. Mancano, per usare una immagine quasi milaniana, quei preti che ti volevano davvero bene e dunque ti  mettevano il Vangelo in una mano e il giornale nell’altra e ti insegnavano che la “Buona Notizia” delle pagine evangeliche può e deve essere anche nelle pagine del tuo giornale. Ecco perché ha ragione Rusconi quando dice che i cattolici “non possono limitarsi a scaricare la responsabilità sulla cattiva politica del presente” ma devono compiere una seria autocritica su questi ultimi anni, una critica che colpisca specialmente ogni appiattimento deferente verso i potenti finalizzato a lucrare favori o vantaggi, una critica che sostenuta dalla radicalità evangelica ridia spazio e vigore alle voci profetiche capaci di denunciare ma anche di annunciare gioia grande, capaci di ripetere le parole isaiane: “per amore del mio popolo non tacerò”.

Adriano Frinchi

Cari lettori, ma voi lo sapete cos’è “La Padania”? No, non mi riferisco alla mitica Eldorado del Nord, esistente sin dai primordi della storia e dell’umanità. Stavo parlando del giornale ufficiale della Lega Nord, la “Voce del Nord”, già organo di riferimento per il “Nord unito”, il “Nord mitteleuropeo” (direttori colti, eh?), e addirittura per la “Mitteleuropea” (tutta intera, evidentemente, dalla Padania all’Ungheria, passando per Germania e Polonia). È un giornale che spara a zero contro “Roma Ladrona” e contro il Sud sprecone, ma che poi non disdegna il finanziamento annuale statale di oltre 4 milioni di euro. È un giornale che vanta come direttore politico Umberto Bossi, già reo confesso al processo Enimont, già condannato per vilipendio dello Stato e noto estimatore delle proprietà della carta igienica “Tricolore”. È un giornale piccolino (vende in media 22 mila copie), ma sa sempre come farsi sentire (in osservanza alla legge del “chi ce l’ha più duro vince”). Tutto ciò è relativo, però. Perché “La Padania” è forse uno dei pochi giornali a poter vantarsi di aver anticipato uno dei cavalli di battagli più famosi de “La Repubblica”. Come? È l’8 luglio 1998 e la Lega Nord ha rotto da tempo i ponti con il Polo delle Libertà e con il suo leader Silvio Berlusconi. Per questo, l’allora direttore Max Parisi, fa del suo giornale, “La Padania” per l’appunto, il primo al mondo a tuonare, contro “Berlusconi mafioso”, pubblicando in prima pagina diverse foto di big dei Cosa Nostra (Riina, Brusca, Badalamenti, Calò), in compagnia proprio del leader di Forza Italia e del suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, numerosi documenti e le dieci domande indirizzate al premier! Sì, proprio le famose e ormai celeberrime “dieci domande”. Domande che vale davvero la pena di rileggere, documentate a dovere, un vero e proprio esempio di giornalismo coraggioso. Max Parisi, poi, concludeva il suo articolo, lanciando un appello a Berlusconi: “Poiché c’è chi l’accusa che quell’oceano di quattrini provenne dalle casse di Cosa Nostra e sta indagando proprio su questo, prego, schianti ogni possibile infamia dicendo semplicemente la verità. Punto per punto, nome per nome. È un’occasione d’oro per farla finita una volta per tutte. Sappia che d’ora in poi il silenzio non le è più consentito né come imprenditore, né come politico, né come uomo.” Dopo 12 anni, immagino, “La Padania”, (che nel frattempo collezionò una serie di querele) starà aspettando una risposta. E invece no. Perché si direbbe che invece lì dalle parti di Pontida abbiano cambiato idea: prendete in mano una qualsiasi copia del giornale è leggere che Berlusconi non è più “in combutta con la Mafia”, ma è il “salvatore del Nord”, boicottato (dicono loro: sì, sempre gli stessi) dagli affaristi del Sud (che rispondono ai vari nomi di Casini, Fini, PD e compagnia bella) e dalla magistratura militante. Smemorati? Sbadati? Rassegnati? Oh, no. Gli smemorati de “La Padania” la loro risposta l’hanno trovata. E sapete dove? Nel traffico delle banche, delle quote latte e nella lottizzazione dei vari enti pubblici organizzato dal proprio partito di riferimento. Perché se Roma è e resterà sempre “ladrona”, chi vieta alla Padania (la terra, si intende) di sedersi al tavolo dei commensali e di tenere per sé la fetta migliore di tutto? Come Berlusconi sia riuscito ad accumulare il suo patrimonio non può avere più nessuna importanza, visto che, ora come ora, sono super-impegnati ad accumulare il loro, di patrimonio.

E allora al diavolo le dieci domande a Berlusconi. È la Padania, bellezza.

GIUSEPPE PORTONERA

In questi giorni si è parlato del caso Mondadori , ovvero del decreto 40 (poi convertito in legge) che di fatto permette a Mondadori, per una vicenda risalente al 1991, di pagare solo 8,6 milioni di euro al fisco, invece che 350 milioni di euro.
Ma questa vicenda potrebbe essere solo il preludio ad un altro intervento similare, che riguarderebbe il Lodo Mondadori, ovvero la causa in corso tra CIR e Finivest che origina dalla guerra finanziaria che si fecero De Benedetti e Berlusconi per il controllo della Mondadori medesima.

Nel 1990, per dirimere l’intricata vicenda, vi è un primo arbitrato a cui si rivolgono i contendenti: questo arbitrato da ragione a De Benedetti; come conseguenza Finivest oppone ricorso e impugna l’arbitrato di fronte al giudice che da ragione, questa volta a Berlusconi.
Successivamente, nel 1995, in seguito alle dichiarazioni di Stefania Ariosto, la Guardia di Finanza trovò le prove secondo le quali, la sentenza del giudice non era stata “genuina”, ma condizionata pesantemente da Previti, allora avvocato di Berlusconi.
Queste prove, accertate e verificate, diedero vita ad una serie di processi per corruzione e parallelamente, diedero la possibilità alla CIR di effettuare un ulteriore ricorso, lamentando il danno patito per il giudizio non equanime, dovuto ai vizi legati agli episodi di corruzione operati da Previti.
A questo punto arriviamo ai giorni nostri: il 3 ottobre del 2009 il giudice incaricato, decide a favore della CIR e anzi pronuncia una sentenza che prevede che Finivest paghi 750 milioni di euro a De Benedetti ), e ovviamente Finivest ha subito presentato ricorso.
Questa e la vicenda, in maniera molto succinta.
Ma perchè allora, per alcuni, il Lodo Mondadori potrebbe tornare alla ribalta similmente alla discussione sulle tasse non pagate da Mondadori medesima?
E come si lega questa vicenda alla crisi politica attuale?
A luglio, il Guardasigilli Angelino Alfano aveva provato a bloccare la sentenza tramite decreto legge, con il sistema già visto per il decreto 40, ovvero piazzare un emendamento del tutto estraneo per materia in un decreto già in dirittura d’arrivo e tale da dover essere convertito per assoluta necessità. In questo caso la norma era all’interno della manovra economica.
Infatti il governo inserisce un decreto che riscrivele regole per i processi civili pendenti: la sospensione di sei mesi e una nuova figura, quella dell’ausiliario del giudice, che studia e propone una soluzione nel merito. Se la soluzione è accolta dalle parti, l’ausiliario si becca una lauta parcella, e la causa è finita; se invece i contendenti non sono d’accordo, si va alla sentenza per le vie regolari, ma sul perdente pesa la minaccia di doversi accollare tutte le spese per aver rifiutato la “via breve” e riguardava 5,6 milioni di cause pendenti.
Il decreto fu poi ritirato per le proteste dell’opposizione che anzi affermò per bocca dell’on.le Rao: “Come volevasi dimostrare il governo sta facendo marcia indietro anche sull’emendamento alla manovra che introduceva surrettiziamente la riforma del processo civile. Ma non basta. Questo emendamento non va riformulato, va semplicemente ritirato’. Lo dichiara in una nota il deputato dell’UDC Roberto Rao componente della commissione giustizia della Camera dei deputati. “Qualsiasi riforma che incida nei rapporti fra le parti e il giudice – spiega – deve essere inserita in provvedimenti che riguardano la giustizia e che devono essere pertanto affrontati e discussi nelle commissioni competenti. Altrimenti sara’ soltanto l’ennesimo pasticcio che non risolvera’ i gravi problemi della giustizia italiana”.

L’articolo, era stato ritirato, ma sta ritornando inserito nei famosi 5 punti su cui Berlusconi vuole la fiducia: prima la sospensione, articolata in due fasi, due-tre mesi per prendere la decisione se seguire oppure no la strada alternativa a quella tradizionale, poi altri sei mesi per permettere all’ausiliario di costruire una soluzione processuale. Poi la decisione delle parti e l’opzione tra l’assenso alla mediazione o il rifiuto con quello che, in quelle condizioni, può comportare economicamente il rischio del dibattimento tradizionale.
Ovviamente la chiave di tutto è l’ausiliario, che non è un magistrato, ma avvocati, notai, avvocati dello Stato, docenti o ricercatori universitari, anche magistrati in pensione, che pigliano in carico un processo con l’obiettivo di chiuderlo. E sono ben pagati solo se azzeccano la soluzione, altrimenti incassano una sorta di risarcimento al lavoro fatto.
Il problema è che questo decreto è a rischio incostituzionalità ed in contrasto contro la procedura processuale perchè l’arbitrato, rappresenta una prima fase del processo, e non può essere tirata in ballo quando già il processo è iniziato, senza contare che si va ad affidare più di 5 milioni di processi a soggetti che non sono giudici, ma che potrebbero anche trattarsi di avvocati alle prime armi che per dare il loro giudizio, non è detto che si affidino alle prove, perchè potrebbero decidere secondo “equità” e quindi in maniera estremamente soggettiva, visto che, come ben sanno tutti, “la legge si può sempre intepretare”.
In tutto questo come si inserisce il lodo Mondadori e la crisi politica? Se una riforma del genere prendesse corpo, la Finivest potrebbe bloccare il suo ricorso, ottenere un’ulteriore sospensione e cheidere l’arbitrato, ottenendo la possibilità di giostrare e ottenere forti sconti sulla precedente sentenza. Dal canto loro, i finiani, ritengono che sia una riforma inaccettabile e proprio su questo punto, hanno dato, e promettono, battaglia.

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